Un grande patrimonio monumentale finalmente restaurato.
Luogo capitale dell’arte italiana, meta irrinunciabile per ogni viaggiatore sette-ottocentesco, esperienza formativa per poeti e pittori che vi riconoscevano l’immagine emblematica della civiltà medievale, il Camposanto Monumentale ha visto la sua fortuna appannarsi nel corso dell’ultimo secolo, colpito da un oggettivo depauperamento cui solo ora si sta finendo di porre rimedio, dopo lunghi anni di restauro.
Il Novecento non è stato infatti un secolo felice per questo singolare edificio, concepito nel 1277, a mezza strada tra chiesa-reliquiario e chiostro, per accogliere nella navata centrale scoperta la “terra santa” portata dalla Palestina al tempo della seconda crociata: in questo prezioso, santo campo – un luogo, per dirla con le parole dell’arcivescovo del tempo, ampio e decoroso, appartato e chiuso – dovevano essere ricoverati i sarcofagi di età romana, reimpiegati come sepoltura per i pisani illustri e fino a quel momento disseminati attorno alla Cattedrale, mentre sotto il pavimento delle navate laterali (o, se si vuole, dei corridoi del chiostro) potevano aprirsi più umili sepolture.
Edificazione e, per buona parte, decorazione, hanno luogo nel Trecento, l’ultimo grande secolo di Pisa prima della sua sottomissione a Firenze: sulle pareti si susseguono grandi scene affrescate a illustrare la Vita e la Morte, Terrene ed Eterne, prediche dipinte dai migliori artisti del momento (non ultimo quel Buffalmacco amico del Boccaccio e personaggio di sue spassose novelle), scene destinate all’occhio del corpo e della mente, in assonanza e associazione con le prediche declamate da Domenico Cavalca.
Si aggiunsero poi, per mano dei migliori artisti del momento, le Vite dei Santi Pisani e le Storie del Vecchio Testamento, completate nel secolo seguente da Benozzo Gozzoli.
Divenuto nel Cinquecento luogo di elezione per i sepolcri dei più illustri docenti dell’Ateneo Pisano (ma anche di membri della famiglia Medici), l’edificio si avvia a divenire Pantheon delle memorie pisane: delle persone e delle famiglie, ma anche del glorioso passato classico e medievale della città.
Nasce così la vocazione museale del Camposanto: i suoi muri si coprono di epigrafi romane, i sarcofagi, ormai visti non più come sepolture ma come preziosi documenti di storia e di arte, vengono spostati dal “campo” ai corridoi e, agli inizi del XIX secolo, l’edificio è scelto per ospitare uno dei primi musei pubblici europei ordinatovi dal suo conservatore, Carlo Lasinio. Le sculture antiche, medievali e moderne, disposte nei corridoi (ormai chiamati “gallerie”) continuarono a convivere per tutto l’Ottocento con i sepolcri, riservati però agli “spiriti magni”, per creare un luogo deputato alla celebrazione patriottica e insieme alla meditazione sulla morte, come perdita non solo privata ma sociale e politica – lo svanire delle antiche glorie e civiltà.
Il Camposanto dunque, per questa unica mescolanza di stili e di epoche, per il fascino melanconico che gli deriva dalla sua stessa vocazione cimiteriale, viene a godere di una crescente fortuna: nei suoi affreschi si avverte, con Coleridge, “il maestoso sorgere della pittura”; per Leo Klenz, architetto di Luigi di Baviera, come il Partenone riassume in sé la civiltà greca, così il Camposanto è simbolo di quella italiana.
Ma questo mito europeo viene spezzato all’inizio del Novecento: prima, da una vera tempesta museografica (la creazione di un Museo Civico comporta la decurtazione del nucleo ordinatovi da Lasinio, mentre l’eccelsa galleria della statuaria ottocentesca viene allontanata per restaurare la purezza medievale del monumento); poi, dagli eventi bellici del 1944, con l’incendio del tetto, le campagne di stacco degli affreschi, il loro restauro affannoso e sperimentale e, a partire dagli anni Ottanta, il ripresentarsi del degrado che costringe al ricovero degli illustri pazienti.
Oggi il Camposanto sta rinascendo: mentre le sinopie dei suoi celebrati affreschi si possono vedere nel museo ad esse dedicato, le collezioni archeologiche raccoltevi da Lasinio al Museo dell’Opera del Duomo e le sculture medievali al Museo Nazionale di S. Matteo, dietro la spoglia parete di marmo in cui si apre l’ingresso il visitatore accorto troverà nuovamente, e restaurate, le sculture ottocentesche, ricomposti sarcofagi e monumenti, ricollocati sulle pareti i primi affreschi: un’immagine ritrovata, che si accosta alla luminosa fortuna e al profondo significato di questo monumento nella storia dell’arte e della cultura europea.
Clara Baracchini